GEOS - n.9 Maggio 1996 - anno IV
ISOLE DI CAPO VERDE

Gli ultimi ambienti selvaggi

Testo di Pier Vincenzo Zoli - Foto dell'Autore e di Mauro Camorani

Un mare generoso ma difficile

Ricchezza dal mare

La pesca è la principale attività dei capoverdiani e la risorsa più importante dell'arcipelago. Viene esercitata con barche lunghe circa sette metri e con equipaggi di una dozzina di persone; munita di maschera subacquea, una di esse si cala in mare per avvistare i branchi di "cavala", quindi le reti vengono calate in mare,distese ed issate a bordo con la massima velocità per eludere gli attacchi degli squali. Il pescato viene poi ripartito fra tutti gli uomini dell'equipaggio.

Un mare generoso ma difficile

I pescatori di Capo Verde traggono infatti dal mare tutte le loro risorse, sebbene la pesca non sia mai stata una fonte di ricchezza per queste isole ed un'esperienza da fare è partecipare ad una battuta di pesca al "cavala", una specie di pesce azzurro di cui sono ricchissime le acque dell'arcipelago.
A bordo di barche in legno inferiori ai sette metri una dozzina di pescatori lascia la spiaggia a mattino inoltrato e si spinge alla ricerca dei branchi, costeggiando sovente per molte miglia. Individuato il luogo ritenuto più adatto, uno di essi si getta in acqua e tenendosi alla prua della barca scruta con la maschera il fondale. Sovente la ricognizione deve essere interrotta per l'arrivo degli squali, anch'essi a caccia di cavala.
In una specie di rincorsa per la sopravvivenza, uomini e pescecani cercano di raggiungere per primi il pesce; quando i pescatori hanno la meglio inizia la battuta, ed allora si assiste ad un capolavoro di sincronismo e forza. In pochissimo tempo la rete viene calata, distesa, richiusa e issata a bordo, il tutto col solo ausilio delle braccia. Poi, sfidando le onde oceaniche, che anche nelle giornate di calma percuotono vigorose la costa, i pescatori ritornano a terra con le loro prede, spingendo la barca al di là dei potenti frangenti. Il pesce viene quindi suddiviso tra i pescatori, riservandone la maggiore quantità al proprietario della barca, che lo venderà al mercato. Così ogni giorno. Altri uomini del mare sfidano i potenti tonni, innescando le esche su grossi ami rugginosi legati ad un lungo filo tenuto saldo col solo ausilio della mano. Quando arriva l'afferrata non c'è una canna che flettendosi aiuti il pescatore; solo il braccio e le stesse dita si oppongono alla disperata difesa per la vita dell'azzurro predatore, al quale assai di rado è concesso di tornare ai suoi fondali, quel regno misterioso che in quelle isole ha ancora un popoloso stuolo di eterogenei sudditi.
I fondali intorno a Boavista sono talmente ricchi di aragoste che anche a pochi metri di profondità se ne trovano a decine. Le più grosse, tuttavia, stazionano più in basso e per raggiungerle gli uomini si immergono fino a quaranta metri di profondità utilizzando l'aria spinta fin laggiù da vecchi compressori il cui filtro, sovente, è costituito da sudicie magliette un tempo colorate. Non è raro vederli riemergere con gli occhi viola ed il naso sanguinante per la pressione, ma il giorno dopo sono nuovamente in acqua, perchè la stagione della pesca dell'aragosta non è lunghissima ed in estate i compressori vengono piombati dalle autorità.
Ogni tanto, la notte, gli scogli delle zone rocciose si accendono di cento fuochi che illuminano il cielo stellato: è la caccia ai granchi giganti. Attratti dalla luce questi crostacei escono dai loro nascondigli sotto la sabbia e diventano immediatamente cibo per gli isolani e, da qualche tempo, per i primi turisti che stanno scoprendo questo mondo ancora intatto a poche ore di volo dall'Europa.

estratto da:
GEOS - Edizioni ECOS SRL - n.9 Maggio 1996 - anno IV - Testo di Pier Vincenzo Zoli - Foto dell'Autore e di Mauro Camorani

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